
Venezia compie 1600 anni
A Venezia c’è un palazzo di sbalorditiva ricchezza, che ricorda la potenza dei signori che lo abitarono: il Palazzo dei Dogi. I turisti lo visitano a frotte, con il naso all’insù, ma in realtà pochi sanno come funzionasse la macchina del potere della Serenissima e chi fossero veramente e che compito avesse un doge. Marin Sanudo il Giovane affermava che la carica di doge era “il primo ufficio della Repubblica”, riservato solo ai gentiluomini benemeriti. Nel doge si identificava lo stato; era una sorta di “Sommo Sacerdote” della Serenissima.
La carica comportava un controllo serrato sulla vita stessa del doge, la quasi impossibilità di sgarrare sul piano legislativo, economico e politico (Marin Faliero nel 1355 ci perse la testa per aver tentato una congiura). Il controllo si estendeva alla famiglia; le elevatissime spese di apparato erano a carico del doge stesso, l’impegno era di 24 ore al giorno, con obbligo di residenza nel palazzo dogale. Forse poco attraente l’insieme, ma le grandi famiglie veneziane facevano a gara e avrebbero venduto l’anima per arrivarci, poiché ne derivavano una gloria imperitura e un enorme prestigio sociale. Eleggere un doge era affare complicatissimo, con un regolamento fissato nel 1268 dal Maggior Consiglio. La corsa era ad ostacoli, con una selezione progressiva fra trenta nobili, seguita da altre selezioni, secondo lo stile di un conclave papale: si mangiava, si dormiva e si restava chiusi nel palazzo fino ad elezione avvenuta.

Feste splendide, in stile bizantino, aspettavano il doge dopo l’elezione, ma anche il passaggio per una sala, detta “del Piovego”, dove gli si ricordava che sarebbe stato esposto da morto. I funerali di un doge erano una cerimonia impressionante, complessa, drammatica, fastosissima. Il doge veniva portato in una bara sollevata nove volte dai marinai che gridavano “Misericordia!”, fra folle di popolo e di tutti gli apparati dello stato. Carica a vita, vi si arrivava da vecchi. Enrico Dandolo vi approdò nel 1192 ad 85 anni suonati. Dogi anziani era per la Serenissima anche garanzia di poteri; non potevano radicarsi troppo; con le sue eccezioni: Domenico Contarini eletto doge nel 1659 a 74 anni durò nella carica 15 anni, stimato ed amato. Molti dogi erano mercanti, ambasciatori, guerrieri, spesso coltissimi, uno divenne santo, quasi tutti amanti dello sfarzo. Le tradizioni indicano come primo doge nel 697 Paoluccio Anafesto. L’ultimo, deposto nel 1797, fu Ludovico Manin; con lui cadde per sempre la Serenissima.
A queste figure straordinarie, che si perdono fra le leggende della laguna e la notte dei secoli, è stato dedicato un libro di assoluta bellezza, che per la prima volta raduna con foto splendide le tombe di 120 dogi. Il libro, di Toto Bergamo Rossi, con fotografie di Matteo de Fina, è stato stampato a fine 2020 dalla Marsilio editrice con il finanziamento della Regione Veneto e con il sostegno dell’Autorità del sistema portuale del Mare Adriatico settentrionale.
Tutti pensano che Venezia sia una città di quadri e che i suoi colori si siano riflessi nell’arte di Giorgione, Tiziano, Veronese, Tintoretto, Tiepolo. Senza dubbio. Ma Venezia (e questo è un aspetto sempre troppo poco considerato) è prima di tutto una città di pietra, una città scolpita, dove nel corso dei millenni si è radunata una delle più incredibili selve di statue, colonne, marmi, ornati scolpiti, decori. Venezia fu l’erede dell’Impero d’Oriente e, tramite quello, delle glorie di Roma che erano glorie scolpite. I veneziani ne erano ben consci e fecero di tutto perché ciò venisse tramandato. Le tombe dei dogi, nel loro crescendo di ricchezza e di arte, lo testimoniano. Nei secoli a modellare queste tombe intervennero tutti i maggiori artisti del settore: da Antonio Rizzo a Jacopo Sansovino; da Alessandro Vittoria, a Andrea Tirali, Giusto le Court.
Il doge, di solito, commissionava, ancor vivente, la sua tomba ed era questo uno dei pochi modi in cui poteva autoesaltarsi ed esaltare le glorie della sua famiglia, considerato che la Serenissima lo riteneva ufficialmente soltanto come “primo tra eguali”. Alcune di queste tombe costarono di più di quelle papali a Roma e guardandole lo si capisce bene. Fino al XIV secolo i sepolcri sono relativamente semplici, poi è una fioritura progressiva. Quella di Michele Morosini morto nel 1382 incomincia a lievitare in una esultanza di archi acuti e trilobati, cuspidi sculture e mosaici. Si assiste poi ad un fermento di nicchie, statue di santi, baldacchini, spesso rifiniti in oro o a colori; così le tombe di Francesco Foscari (+1457), di Niccolò Tron (+1473) e di Giovanni Pesaro (+1659) alla Basilica dei Frari.
La tomba di Francesco Foscari avvince per la particolare bellezza. Sollevata su due altissime colonne che la reggono come braccia al cielo, porta alla base una grande lapide celebrativa delle gesta. Ai lati, due guerrieri reggono le armi dei Foscari e tengono aperto il baldacchino che sovrasta il cataletto, nel quale Foscari, uno dei più importanti dogi veneziani, giace in pace, dopo una lunga vita travagliata da sventure pubbliche e tragedie famigliari. Lo vegliano quattro statue di virtù: giovinette fiere e pensose, di sorprendente naturalezza. Al sommo del baldacchino fiorisce in una mandorla la figurazione dell’Ascensione di Cristo con ai lati l’Annunciazione: l’inizio e la fine delle profezie e delle storie evangeliche. L’autore del meraviglioso monumento non è conosciuto, anche se si pensa a Nicolò di Giovanni Fiorentino.

Tombe come questa, spesso enormi, occupano intere pareti e danno le vertigini nelle immense chiese in cui sono collocate, testimonianza viva del gran fasto veneziano. Sepolcri che con il loro vigore plastico inebriano e sgomentano il visitatore per la loro magnificenza quasi sovrumana. Dallo scorrere delle immagini del libro resta l’impressione profonda di un’aristocrazia a servizio della bellezza. Tripudi angelici e santificanti, figure solenni di dogi composti nella morte o oranti, spiccano nella loro dimensione spirituale e comunicano con parole mute, che vengono di là dallo spazio e dal tempo. Sculture che parlano della compiuta fede dei loro committenti, dei costruttori, degli scultori, come misericordiose promesse di accoglienza e di speranza nell’aldilà.
In una Venezia nuovamente visitata da quanti la amano e la stimano, con un turismo rinnovato e più sostenibile, un turismo pensoso e raccolto, il tour delle tombe dei dogi potrà divenire, si spera, un imprescindibile percorso per comprendere, tramite questi poemi marmorei, la storia di una città che nel 2021 si appresta a celebrare i 1600 anni dalla sua fondazione.